Perché la sedia della riflessione non funziona?

Perché la sedia della riflessione non funziona?

“Siediti e rifletti su quello che hai fatto!” Che si tratti di un morso ad un altro bambino o di un intenso scoppio di rabbia, dall’asilo nido passando per la scuola dell’infanzia fino ai primi 2/3 anni della scuola primaria, la “sedia della riflessione” è ancora considerata una modalità educativa utile per far comprendere al bambino perché certi comportamenti non vadano bene.

Ci sono però varie ragioni per cui mi sento di affermare come questa tecnica non aiuti il bambino a modulare i propri comportamenti nè tantomeno lo aiuti ad esprimere in modo funzionale le emozioni che prova.

Qui di seguito in 6 punti ti spiego il perché.

1. Le neuroscienze ci vengono in aiuto.

Un bambino non è un piccolo adulto; nel bambino, infatti, c’è un’ immaturità del sistema nervoso centrale.

La regolazione delle emozioni, in particolare per quanto riguarda il il circuito della rabbia (emozione che di solito porta ad episodi comportamentali per cui si ricorre alla sedia della riflessione) è strettamente connessa alla maturazione delle strutture presenti nel cosiddetto cervello inferiore (subcorteccia).

Nei bambini occorre favorire una maturazione che consenta alla corteccia (cervello superiore) di intervenire e dialogare con gli strati inferiori perché , altrimenti,  il bambino quando si arrabbierà agirà necessariamente solo d’ impulsò.

La ragione per cui il cervello infantile non è sempre in grado di compiere un’integrazione è molto semplice: non ha ancora avuto il tempo di svilupparsi completamente.

A 2, 3 ma anche a 6 o 7 anni ha ancora molta strada da fare: se pensiamo che, secondo le neuroscienze, il cervello sembra giungere a maturazione non prima dei 25 anni possiamo farci un’idea in merito.

Non si può, quindi, pretendere di forzare i tempi se cerebralmente il bimbo non è pronto.

Sarebbe come pretendere che un bambino a 6 mesi camminasse: ci troveremmo di fronte ad un’aspettativa irrealistica e anche potenzialmente dannosa.

Inoltre un bambino molto piccolo non ha ancora acquisito quella che Fonagy definisce come “mentalizzazione“, ovvero la capacità cognitiva di riuscire a rappresentare gli stati mentali propri e altrui, quindi di comprendere che gli altri possono avere desideri, pensieri, emozioni e aspettative diverse dalle proprie.

Non può considerare (in base all’età o per niente o non più di tanto) la nostra prospettiva perchè non può comprendere che sia diversa dalla sua.

Questo non vuol dire che allo scattare del quarto anno d’età (o del quinto) il bambino si sveglierà e magicamente saprà regolare le proprie emozioni ma vuol dire che ci sono delle finestre temporali da prendere in considerazione.

2. Dall’eteroregolazione all’autoregolazione delle emozioni

Il processo di regolazione delle emozioni avviene se c’è un adulto di riferimento che aiuta in tal senso.

Questo processo, infatti, non si apprende solo grazie alla maturazione fisiologica ma soprattutto grazie alla relazione con gli adulti di riferimento, che possono permettere ciò attraverso il rispecchiamento emotivo e l’interazione con il bambino.

Si passa  da un’ eteroregolazione  ad un’ autoregolazione delle emozioni in un processo che richiede tempo.

Un bambino lasciato a riflettere è un bambino lasciato solo da un adulto, senza avere le  capacità e le risorse per farlo.

In quest’ottica il ruolo dei genitori, degli educatori della prima infanzia ma anche degli insegnanti diventa di fondamentale importanza ed è proprio quello di aiutare e promuovere questo processo.

Il come lo vediamo tra poco.

3. Le origini del “time-out”

La sedia della riflessione riprende una tecnica considerata educativa chiamata “time out”.

Il time-out nasce da una tecnica di controllo del comportamento animale.

Come spiegato da Alfie Khon (pag 35-36 Amarli senza se e senza ma) il termine “time- out” è l’abbreviazione di “time out from positive reinforcment” , ovvero di “castigo”, in lingua inglese.

Questa metodologia venne usata per la prima volta da Skinner e dal suo staff e serviva ad addestrare le cavie da laboratorio.

La sedia della riflessione infatti è un metodo che nasce per sedare dei comportamenti fastidiosi, non per educare.

E’ un metodo che, usato a scopo educativo, rischia di essere quantomeno superficiale; questo perché tiene conto solo del comportamento del bambino ma non tiene conto delle emozioni che lo hanno provocato né dei bisogni alla base che hanno fatto sì che si comportasse proprio in quel modo.

Se lo scopo è intervenire in una situazione di emergenza nel modo migliore in quel momento (e può capitare: quando lavoravo come educatrice mi è successo) evitando danni maggiori va benissimo ma … se lo scopo è educare, meglio altre scelte.

4. Il messaggio che vorremmo trasmettere è ciò che arriva al bambino?

A volte, con tutte le più buone intenzioni, vorremmo passare un determinato messaggio.

Non accade spesso, però, che come adulti ci si chieda se le nostre azioni siano coerenti rispetto a quello che vorremmo ottenere e soprattutto se al bambino arrivi effettivamente il messaggio che vorremmo dargli o se possa arrivargli qualcos’altro.

In questo caso, anche se per noi ha un altro significato, è molto probabile che il bambino (specie se sotto i 3 anni) viva la sedia della riflessione come una punizione.

La conseguenza è che non si senta compreso, visto, capito nei propri bisogni.

Ripeto: purtroppo può succedere anche se noi non lo vorremmo.

Alla luce di queste informazioni, possiamo valutare meglio l’effetto di questa tecnica.

In alcuni casi può sembrare che funzioni perchè è evidente il cambiamento del comportamento del bambino; chiediamoci però se un eventuale dare meno fastidio, per esempio, sia dovuto ad una riflessione e soprattutto comprensione sul proprio comportamento o piuttosto al non voler essere punito (con un educatore che lo sgrida, con una nota, col rimprovero conseguente del genitore).

5. E’ utile per il bambino o è utile all’adulto?

Elizabeth Cagan dice una frase molto forte. Secondo lei la società odierna rifletterebbe in gran parte un’automatica accettazione dei diritti del genitore, trascurando di prendere sul serio i bisogni, i sentimenti e l’evoluzione del bambino.

Personalmente ritengo che sia importante considerare i bisogni del genitore o comunque dell’adulto (educatore, insegnante, tutor ecc.) , così come ritengo importante considerare realisticamente quelli del bambino.

Per questo motivo a mio parere la sedia della riflessione può essere utile in situazioni di emergenza dove “non sappiamo che pesci pigliare”.

Quando lavoravo come educatrice, come accennavo sopra, e mi trovavo per varie ragioni ad essere da sola con tanti bambini, magari nel momento del cambio pannolino, e proprio lì scattavano “litigi”,  ci sono dovuta ricorrere anche io per salvare il salvabile.

Ritengo importante portare l’attenzione alla frequenza dell’utilizzo di questo mezzo. Se troppo frequente potrebbe essere indice di un problema che andrebbe affrontato più a monte.

6. Cosa fare? Alcuni spunti

Mettendo insieme quanto scritto finora, ci sono degli spunti pratici che ritengo possano essere decisamente più validi della sedia della riflessione.

Non con lo scopo di ottenere obbedienza ma allo scopo di favorire il processo di regolazione delle emozioni.

In situazioni come quelle descritte all’inizio dell’articolo possiamo:

– Non provare a far riflettere o ragionare subito il bimbo: è in preda all’emozione e non può riuscirci. Ha prima bisogno di scaricare l’emozione stessa e di calmarsi, nel tempo che gli serve.

Pensa se capitasse a te adulto di essere arrabbiato, di dire o fare qualcosa impulsivamente e di sentirti dire subito: “devi stare calmo”, con la successiva richiesta di riflettere immediatamente sull’accaduto.             Come ti sentiresti?

– Può essere utile aiutare il bambino a prendere le distanze fisicamente dallo stimolo che ha innescato la reazione se è possibile. Non in ottica punitiva ma con l’intento di favorire il processo di calma

Es. se è avvenuto un litigio con un altro bambino, che qui fungerebbe da stimolo, potremmo dire qualcosa come: “Marco, forse è meglio non continuare a giocare ora, sei troppo agitato. Vieni, ci spostiamo qui insieme e ci calmiamo, dopo torniamo a giocare con gli altri bambini”;

– Chiedergli come sta/ abbracciarlo se vuole il contatto. Dirgli che siamo lì per lui.

– Quando inizia a decomprimersi e a calmarsi si può favorire il processo di mentalizzazione rispecchiando l’emozione che ha provato e fornendo un’alternativa di comportamento per le prossime volte.

Es. “Ho notato che ti sei arrabbiato, lo comprendo. Quando sei arrabbiato, però, non puoi  tirare i capelli agli altri bambini, fai male. Puoi usare le parole. La prossima volta potresti dirgli…”.

– Tenere conto che se i bambini si mordono, lottano, si spingono, entro certi limiti è fondamentale che lo facciano. Senza un’intromissione dell’adulto. In questo modo possono imparare a calibrarsi anche da soli.

– Aver chiaro dentro sè come le emozioni che si possono provare sono sempre giuste. Sono i comportamenti che, a volte, possono essere poco funzionali.

– Ricordarsi che se c’è un comportamento che non ci piace non sta agendo così per sfidarci, per farci un torto, per metterci alla prova. E allo stesso tempo avere pazienza con noi stessi se ci sentiamo messi alla prova da queste reazioni, se le viviamo con difficoltà, se ci sentiamo destabilizzati : avere comprensione per noi stessi è il primo passo per dare la stessa comprensione al bambino.

Ricapitolando: a volte la sedia della riflessione può davvero essere la cosa migliore da fare per situazioni di emergenza.

Ma non consideriamola un valido strumento educativo.

(NB. Nell’articolo parlo della sedia della riflessione a scopo educativo, non del time-out inteso come strumento clinico da utilizzare all’interno di percorsi clinici strutturati.

Il discorso avrebbe degli elementi in comune – infatti non è una metodologia che personalmente sposo- ma meriterebbe un approfondimento a sè.)

Fonti e spunti per approfondire:

Alfie Kohn – Amarli senza se e senza ma

Alfie Kohn – Punished by Rewards

Francesca Broccoli – Lascia che si arrabbi

T.Moroney Moroney Moroney“Sai “Sai perché perché sono arrabbiato?”

Daniel J Sigel – 12 strategie rivoluzionarie per favorire lo sviluppo mentale del bambino (versione libro blu)

Percorsi Formativi 0-6 – Le emozioni dei bambini

Bateman, A. & Fonagy, P. (2006) Mentalization Based Treatment – a practical guide

Allen, J., Fonagy, P., Bateman, A. (2008)., La mentalizzazione nella pratica clinica

Fonagy, P. & Target, M., (2001) Attaccamento e funzione riflessiva

Mark F. Bear e Barry W. Connors – Neuroscienze. Esplorando il cervello

Jasper Juul – Genitori competenti. Educare i figli con responsabilità ed equilibrio

Per informazioni e consulenze, clicca qui per i miei contatti.

Questo articolo ha 2 commenti.

  1. Chiara

    Grazie Dottoressa,grazie per gli spunti di riflessione,grazie per i pugni sullo stomaco,grazie per aiutarmi ad aggiustare il tiro..errori se ne fanno,sempre!l’importante è riconoscerli, correggere le nostre modalità ed avere sempre un perché da poter difendere.
    Un abbraccio

    1. Alice Righetti

      Grazie Chiara per queste parole. Ricambio l’abbraccio!

Lascia un commento